Tre grandi vini della Campania a “Storie di Vini e Vigne”

Il fascino dell’esotico si aggira sempre nei gusti dei consumatori napoletani. Anche quando si tratta di scegliere i vini.Napoli è il principale mercato dei vini bianchi altoatesini“, mi dice Raffaele Pagano “Joaquin”, produttore di vini a Capri e a Taurasi e mio compagno di tavolo in questa bella serata di “Storie di Vini e di Vigne” che si è tenuta giovedì 24 gennaio. “Nei ristoranti partenopei, i bianchi più richiesti sono il Gewurtztraminer e il Muller Thurgau“, aggiunge. “Vuoi mettere il magnetismo del nome straniero?“, gli rispondo io.

È come trovarsi di fronte a una bella e prosperosa ragazza campana, che però viene snobbata perché si chiama Carmela“, incalzo, “mentre una smunta ed emaciata sudtirolese risulterà essere più fascinosa, nell’immaginario del napoletano medio, per il solo fatto di chiamarsi, che so, Erika o Veronika“.

E, invece, i vini bianchi campani sono tra i più apprezzati dagli esperti e dagli appassionati“, ci tiene a sottolineare Marina Alaimo, introducendo la presentazione di questo primo incontro del 2019 di questi consolidati appuntamenti con il vino, che si tengono mensilmente presso l’Enosteria “Cap’Alice” di Via Giovanni Bausan.

Le stelle della serata, sono tre produttori campani, dislocati in tre delle più significative zone vitivinicole della nostra regione: l’Alto Casertano, il Sannio e l’Irpinia.

La prima a prendere la parola e a presentare il suo bianco, è una signora che non è né alta, né bionda, né segaligna come una tedesca di montagna, che non viene dall’Alto Adige, ma dall’Alto Casertano. Paola Riccio, si chiama, ed è la titolare dell’Azienda “Alepa” di Caiazzo. Si propone con umiltà: “Il Pallagrello bianco non è ancora un vino che può competere con i Greco di Tufo e i Fiano di Avellino”, dice, “non ha l’acidità dei grandi bianchi irpini, ma non per questo è poco longevo”. E, infatti, offre in degustazione il suo Pallagrello “Riccio bianco” del 2008 che smentisce tutti i luoghi comuni sul fatto che i bianchi debbano essere bevuti per forza giovanissimi. Colpisce, di questo vino, il colore intenso e i profumi di erbette aromatiche che lo rendono particolare. Il “Riccio bianco” 2013 è più evoluto e con maggiori note di freschezza.

Poi è la volta di Libero Rillo, titolare della storica Azienda “Fontanavecchia” di Torrecuso, sulle pendici del Taburno. “La piccola e grande distribuzione e la ristorazione sono inondate di Falanghina“, afferma, “per cui questo vitigno e il vino che se ne produce sono considerati modesti e dozzinali“. “Noi vogliamo dimostrare che con la Falanghina si possono fare grandi vini, di raffinata eleganza e di lunga serbevolezza“, aggiunge con passione e con convinzione. E a conferma delle sue parole, le sue Falanghina, “Libero 2007”, che ha ricevuto i tre bicchieri dal “Gambero Rosso”, e “Facetus 2012”, che è stato classificato tra i 100 migliori vini d’Italia da “L’Espresso”, si rivelano vini fini, fragranti, strutturati, di ampio spettro aromatico, persistenti e dotati di incisiva e ricordevole personalità, a conferma che nel Sannio la Falanghina viene curata e rispettata e che, se risponde a buoni “progetti” di coltivazione delle uve e di vinificazione in cantina, come dice Libero Rillo, produce nettari che competono alla pari con quelli di altri vitigni più blasonati.

E parlando di uve nobili, si passa al Fiano di Avellino “Rocca dei Principi” di Ercole Zarrella. Questa azienda si trova a Lapio sulla collina di Arianiello, dove si incrociano i filari di Fiano e di Aglianico. Ercole Zarrella è un vero contadino e lui e sua moglie coltivano le uve e producono i vini con la passione e l’impegno di chi vive in simbiosi con la terra. Racconta che, fino agli anni ’70, il Fiano era un’ uva misconosciuta, che i contadini utilizzavano per fare un vino dolce. Oggi, invece, è all’apice della notorietà e, come dice Marina Alaimo nella sua presentazione, “con il Fiano non si può sbagliare vino”. E, di fatto, Ercole non sbaglia, e i suoi Fiano di Avellino, Tognano 2015 e 2016, così denominati dal nome della collina dove sono impiantate le vigne vecchie di trent’anni, si caratterizzano per freschezza e mineralità e per profumi delicati e compositi.

La serata si conclude con la consueta cena preparata dallo staff di “Cap’Alice”, capeggiato dal patron Mario Lombardi, che include “Paccheri con baccalà e piselli” , oltreché un ottimo “Calamaro farcito”, davvero memorabili.

Pasquale Nusco