Incontro notturno con Artemisia Gentileschi

Pubblichiamo un breve scritto della scrittrice e poetessa fiorentina Clara Cecchi sulla figura di Artemisia Gentileschi.

Alle due di notte, se il sonno tarda a venire, talvolta i pensieri prendono direzioni insospettate e accantonate da tempo.
Senza alcun nesso logico spiegabile, mi torna a mente un articolo letto qualche anno fa su un settimanale: riguardava il restauro di “Davide e Betsabea”, un dipinto di Artemisia Gentileschi, pittrice a cavallo fra la fine del ‘500 e la metà del ‘600, rimasto per anni trascurato nei depositi di Palazzo Pitti a Firenze. L’articolo sottolineava che la tela, esposta nella Sala Bianca della Galleria Palatina di Palazzo Pitti, avrebbe mostrato al pubblico il ritrovato splendore. Pare che la Gentileschi la eseguisse a Napoli intorno al 1635 ed è una curiosità il fatto che di tale soggetto ne esistano in vari musei addirittura sei versioni…questa fu inviata al Granduca Ferdinando II de’ Medici per il suo appartamento, appunto a Pitti.

Basta questo breve ricordo a provocare una brusca inversione di marcia nei miei pensieri già vagabondi: con un repentino balzo nel tempo mi ritrovo tanti anni fa, studentessa universitaria appassionata di arte e letteratura femminile, soprattutto di quella italiana dai primi anni del Novecento in poi. Devo concordare la tesi di laurea con il mio professore e mi viene proposto di approfondire l’argomento presentando una scrittrice importante, per certi versi atipica nel nostro panorama letterario, Anna Banti, fiorentina, laureata in Storia dell’arte, donna schiva fino al limite della scontrosità ma impegnata da sempre nell’indagine dell’animo femminile, osservatrice e narratrice attenta dei disagi e delle inquietudini delle donne in un periodo per loro di grandi trasformazioni e mutamenti in ogni campo, artistico, letterario, politico, sociale.

Per la mia ricerca devo leggere moltissimi testi della biblioteca Nazionale, reperire materiale d’archivio, visionare fotografie e microfilm di documenti non più consultabili dopo l’alluvione del ’66: ancora non esiste il computer per facilitare l’enorme mole di lavoro…ma è un’esperienza che mi appassiona enormemente! Grazie alla scrittrice l’incontro con Arte­misia è un colpo di fulmine immediato: mi affascina la storia di questa pittrice, una delle prime che la nostra storia ricordi. Quella della Banti non è la classica biografia romanzata, ma qualcosa di più: il ritratto di una donna che con la sua arte e per la sua arte ha ricoperto un ruolo di rottura di quelli che erano i rigidi schemi della sua epoca, dipinto dalla mano della sua autrice che con lei dialoga e interagisce.

Il libro risale al 1947, dopo essere stato iniziato e perduto nel ’44, durante la guerra: la Banti, nel suo stile molto particolare e riconoscibilissimo, frammentario e poco incline a facili sentimentalismi seppure intensissimo e coinvolgente, ricostruisce le vicende della pittrice ribelle Artemisia con la cura e la pazienza di una frequentatrice di archivi storici, aiutata in questo dall’ambiente artistico che le ha sempre gravitato intorno fin dal matrimonio con il critico Roberto Longhi, di cui a suo tempo era stata anche allieva.

La particolarità e la fama di quest’opera è data proprio dall’espediente del suo ritrovamento fra le rovine di Firenze bombardata e dal dialogo serrato e sofferto che s’instaura fin dalla prima pagina fra la scrittrice e la sua eroina, che le appare vagante fra le gradinate di Boboli alla ricerca della propria vita perduta, quella stessa che la Banti, attraverso un confronto che si dipana lungo le pagine del libro, alla fine riesce a restituirle.

Mi ritrovo così a seguire le vicende avventurose della Gentileschi, nata a Roma negli ultimi anni del ‘500, figlia di Ora­zio Gentileschi, pittore conosciuto che la inizia fin da bambina all’arte della pittura alla maniera del Caravaggio, la spinge a frequentare lo studio di un altro pittore, Agostino Tassi dove, ancora giovanissima, finisce violentata e in seguito messa alla berlina in un penoso processo per stupro che si terrà nel tribunale romano di Corte Savella: da qui il titolo di una successiva opera teatrale incentrata su questo dibattimento, che la stessa Banti riadatterà e sceneggerà nel 1960. Per sfuggire agli echi del processo e poter continuare a dipingere Artemisia inizia una serie di peregrinazioni che la porte­ranno a Firenze, di nuovo a Roma per un matrimonio di convenienza da cui avrà anche una figlia, poi a Napoli dove farà anche scuola e si farà apprezzare, realizzando anche lo splendido dipinto Giuditta che decapita Oloferne ora nel museo di Capodimonte. Emblematico il fatto che lo stesso soggetto sia stato ripetuto in un altro dipinto conservato alla Galleria degli Uffizi a Firenze…quasi a significare l’ansia di riscatto dalla violenza subita e l’inquietudine che hanno ca­ratterizzato la sua esistenza. Fra le altre opere napoletane anche tre quadri per la cattedrale di Pozzuoli restaurati e esposti negli ultimi anni. In seguito si spinse addirittura in Francia e in Inghilterra, per raggiungere il padre che laggiù era pittore di corte. Morirà a Napoli, sepolta nella chiesa di San Giovanni Battista dei fiorentini. Sulla sua lapide, ora perduta, due sole parole: Heic Artemisia.

Una vita decisamente inquieta, insomma, dominata dalla solitudine di una donna che aspira testardamente al lavoro che ama e ad una condizione di parità con l’uomo, pena il dover sottostare a duri sacrifici e rinunce…una pioniera, dunque, per i suoi tempi!

Mi chiedo perché questa notte, dopo tanti anni, i miei pensieri mi riportino ancora verso la pittrice e la scrittrice, così di­stanti nel tempo eppure così vicine in spirito…Le ho amate molto: all’epoca noi giovani studentesse tendevamo ad im­medesimarci con passione in donne come queste, era un periodo in cui si lottava molto per l’affermazione dei diritti femminili e l’impegno e la dedizione richiesta erano quasi assoluti

Avevo molte speranze a quel tempo, tuttavia, mentre a fatica cerco di prendere sonno, stanotte non posso fare a meno di pensare a quanto sia lunga ancora oggi la strada da percorrere.

Clara Cecchi